La vita di Beatrice sino ad allora non si poteva certo dire fosse in salita, anzi, senza alcun dubbio proseguiva rovinosamente verso il basso. Conduceva un’esistenza grigia ed incolore. L’unica fortuna che la sorte non le negò, era il suo aspetto. Godeva di un innato fascino di cui forse neanche lei stessa se ne rendeva conto. Nel quartiere sembrava un fiore fra tanti carciofi, era sempre corteggiata, ovviamente anche da me, ma a differenza degli altri io a Beatrice ci tenevo davvero, nutrivo nei suoi riguardi un celato affetto mai confessato, senza sapere neanche se lei se ne fosse mai accorta.
Beatrice non era molto alta, ma neanche troppo bassa, una montagna di capelli neri corvino le scendevano giù per le spalle, due grandi occhi brillanti, ed uno sguardo intenso che avrebbero ipnotizzato persino un cieco, ai miei occhi appariva bella come una Madonna.
Abitava in due camerette più servizi al pianoterra di un anonimo palazzotto in via della Goletta, ad angolo con il mercato rionale di zona, cupa stradina del quartiere Trionfale, un angusto budello che congiungeva appunto il mercato rionale con via Candia, un luogo perlopiù frequentato da scaricatori di tutte le razze, gente che tirava avanti alla giornata senza troppi scrupoli, dove tutto ciò che riuscivano a guadagnare, lo sperperavano in un fiasco di vino sfuso all’osteria. Sin dalle prime ore dell’alba già li potevi sentire bestemmiare a squarciagola improperi di ogni tipo contro tutto e tutti, sollevando l’ira degli abitanti circostanti.
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Beatrice viveva con sua madre, la signora Clara, rimasta vedova fin da quando lei frequentava le scuole elementari, inoltre, la mamma soffriva di una grave malattia degenerativa che la costringeva a vivere su di una sedia a rotelle, il che ne peggiorava le già avanzate crisi depressive sopraggiunte a causa della precoce vedovanza. Abitava con loro anche suo fratello Ettore, un vero fannullone che campava di espedienti e piccoli furti, lo trovavi sempre stravaccato in qualche fiaschetteria di zona ubriaco fradicio, se non al commissariato di via Ruffini, dopo qualche scelleratezza consumata in compagnia dei suoi balordi compari di quartiere. Beatrice in tutto questo era l’unica fonte di guadagno familiare ed era proprio in quella triste realtà che si consumava giorno dopo giorno la sua deprimente esistenza.
Una volta terminata la scuola dell’obbligo, entrambi ci dovemmo procurare un lavoro, imparare un mestiere, avevamo quattordici anni circa .
Io senza troppe difficoltà, iniziai il mestiere nella barberia del signor Tommaso, proprio sotto casa, la stessa che frequentavo una volta al mese con papà. Iniziai come ragazzino di bottega, quindicimila lire a settimana più le mance. Beatrice invece grazie alla raccomandazione di un’amica di sua madre, trovò impiego presso una tintoria di via Otranto come stiratrice. Cosi iniziai a vederla sempre meno.
Passarono cinque anni, Beatrice non seppe mai dei miei sentimenti, tanto meno io la cercai per palesarli, neanche quando circolava voce che avevano dovuto lasciare la casa del Trionfale per occuparne una in periferia, una casa popolare ad est della città, e questo a causa dei debiti che le aveva procurato suo fratello, insomma, si vociferava che se la passassero tutt’altro che bene.
Dopo circa un paio d’anni che lavoravo come barbiere, un venerdì all’ora della riapertura pomeridiana, si presentò a bottega l’ingegner Fausto, il figlio maggiore del principale, portando con se una terribile notizia, era li per avvertirci che avrebbe dovuto chiudere definitivamente il negozio, il padre disgraziatamente era deceduto per infarto durante la pausa pomeridiana. Con l’occasione pregò tutti di risentirci dopo qualche giorno per sistemare i conti dopo aver parlato con il ragioniere, aggiungendo poi che non sapeva ancora quando ci sarebbero stati i funerali, ma che in qualche modo ci avrebbe informati sul giorno e il luogo preciso. Poi prima di andarsene lasciò ad ognuno di noi il corrispettivo di un mese di lavoro ed infine commosso, baciò ed abbracciò tutti. Così rimasi di colpo senza lavoro, senza contare il grande dispiacere per la mancanza di colui che consideravo il mio maestro, una persona a cui ero legato da grande affetto fin dall’infanzia.
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Fortunatamente il signor Tommaso era ben voluto da molti suoi colleghi, per aver aiutato molti di loro all'inizio delle loro carriere, mantenendo così nel tempo ottimi rapporti con tutti. Una mattina, mi presentai appunto in Via Mario de Fiori, ad un passo da Piazza di Spagna, ero stato cercato proprio da uno di questi suoi amici, dopo che aveva saputo della disgrazia. Puntuale arrivai all'appuntamento, parlai con un signore di nome Peppino che si presentò come il titolare della bottega. Mi spiegò che occasionalmente tempo prima, il signor Tommaso in uno dei loro incontri, gli aveva parlato molto bene di me. Così dopo una breve prova che consistette nel raderlo, mi disse: << Allora Paolo, ti piacerebbe lavorare qui nel mio salone? >> Non mi sembrò vero, acconsentii senza pensarci neanche un attimo, anche perché non lavoravo da quasi un mese, e dato che i soldi avuti dall’ingegnere li avevo dati quasi tutti a mia madre, i pochi che mi erano rimasti stavano finendo. Così fui assunto percependo un salario ben più alto di quello di prima. Per me fu proprio come cita il detto, si chiuse una porta e si aprì un portone.
Circa un anno dopo, una domenica mattina, mi trovavo a negozio, dato che all’epoca i barberi rimanevano aperti mezza giornata anche nei giorni festivi, così entrò un giovanotto sui trent’anni ben vestito, accompagnato proprio da lei, Beatrice.
L’emozione della sorpresa mi fece sobbalzare il cuore, stavo per lanciarmi a salutarla come l’istinto mi indicava di fare, tuttavia, lei con la più totale indifferenza mi ignorò, prese una rivista si sedette ed iniziò a sfogliarla noncurante di tutto ciò che le era attorno, me compreso. Per un attimo pensai che non mi aveva riconosciuto. A malincuore rimasi al mio posto, mi voltai verso il suo accompagnatore e lo feci accomodare. Beatrice era diventata più carina di come la ricordassi, indossava un vestitino estivo a mezze maniche color ciclamino, con su ricamate piccole margheritine gialle, dava l’impressione di essere il classico abitino buono della domenica, non mi sembrò affatto trasandata, anzi, appariva ben curata e me ne rallegrai, con la stessa montagna di capelli nero corvino che le cadevano sciolti come una sorgente d’acqua sulle spalle.
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Terminata la rasatura e il taglio di capelli, accompagnai l’elegante giovanotto alla cassa, Beatrice si alzò, e posata la rivista ci venne incontro.
<< Grazie >> disse il nuovo cliente. Aggiungendo:
<< Vorrei poter avere il vostro numero di telefono, se è possibile, la mia segretaria la prossima volta prenderà un appuntamento, odio fare le file.>>
<<Ma certo, con molto piacere>> risposi. << Magari se la sua segretaria ci chiama un giorno prima è ancora meglio>> aggiunsi.
Così soddisfatto si girò verso Beatrice disse <<Francesca ci pensa lei per tutto? >>
<< Certo dottore>> Prontamente rispose Beatrice:
Io trasecolai, Francesca? Ma come Francesca? pensai, per fortuna l’ espressione di stupore sulla mia faccia non fu raccolta da nessuno ad eccezione della diretta interessata che mi fissò per qualche attimo lasciandomi capire tutto e niente.
Così mentre lui si rifaceva il nodo alla cravatta davanti allo specchio, Beatrice astutamente disse:
<< Allora me lo da questo numero?>> Avviandosi spedita verso la cassa rimasta isolata.
Una volta appartati da occhi ed orecchi indiscreti aprì la borsetta dalla quale estrasse una penna e un taccuino e ad alta voce disse: << Allora mi dica il numero che scrivo.>>
Ma un secondo dopo con un filo di voce senza guardarmi bisbigliò:
<< Ti prego Paolo, non dire nulla, tienimi il gioco, tu non sai in questi anni che calvario, è successo di tutto, perquisizioni, sequestri giudiziari, Ettore avanti e indietro da galera, la mamma internata e quasi del tutto impazzita. Il dottore non sa nulla del mio passato, se disgraziatamente venisse a scoprire qualcosa morirei dalla vergogna e per me sarebbe la fine. Lui è tanto buono con me, mi copre di attenzioni, mi aiuta in tutto, non posso perderlo, se non ci fosse lui non saprei dove sbattere la testa, ti scongiuro, tu perlomeno che mi hai sempre voluto bene, e io che l’ ho sempre saputo … perlomeno tu che sei tutto ciò di più buono e di pulito ho nella vita, ti prego taci ... >>
Poi alzando di nuovo la voce disse: << Grazie tante, allora rimaniamo d’accordo cosi, la chiamerò il giorno prima ogni volta che il dottore ne avrà bisogno>>
E dopo avermi formalmente salutato in segno di congedo, allungò una mano e mi mise nel taschino del camicie una banconota da cinquecento lire dicendo: <<Questo è per lei, sembra che se le sia proprio meritate>>
Pagato il conto si avviarono assieme all’uscita, mi affacciai, nell’aria sentivo ancora il suo profumo, li vidi allontanarsi frettolosi, lui cingendole confidenzialmente un braccio attorno alla vita, mentre lei intanto allegra, sbirciava curiosa nelle lussuose vetrine di via Mario de Fiori, poi ad un tratto si voltò, come se sentisse il mio sguardo su di lei, guardò prima che lui fosse girato, e solo allora portò una mano sulle labbra e mi lanciò un bacio sorridendo contenta. Aveva capito che il suo piccolo segreto era al sicuro, lo avrei sempre portato con me. Le strizzai l’occhio e così le feci capire di stare tranquilla, con un po’ di malinconia rientrai a negozio, spazzai da terra i capelli del suo “filantropo”, proseguendo il mio lavoro.
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