venerdì 11 marzo 2011

Racconto. "La mia prima volta."



  Non c’era verso …  pur arrovellandomi il cervello, non mi riusciva di dare una risposta a quel dannato quesito che oramai mi stava facendo impazzire. Nelle rare volte in cui ne parlavo con quei pochi ed intimi amici, la risposta era sempre la stessa.
“ Ma come è possibile, certe cose non si dimenticano per tutta la vita, sarebbe come dimenticarsi il nome della propria madre, o del proprio padre”.
E in effetti ritrovarsi alla mia età e non avere memoria della donna con cui si è diventati uomini per la prima volta, era una roba davvero da non poter raccontare, per non dire addirittura una vergogna. Eppure, nonostante tutti gli sforzi profusi, non me ne ricordavo. Per essere più esatti i miei sospetti gravitavano attorno ad un paio di ragazze frequentate nel periodo in cui iniziavo ad uscire di casa anche dopo cena, ma non sarei stato capace di dire chi delle due era stata la prima, seppure si fosse trattato di una di queste. Eggià, perche anche questa possibilità, a ragionevole memoria, accadeva quando già guidavo, quindi verosimilmente maggiorenne, un’epoca in cui volevo immaginare avessi già provveduto a certe pratiche. I ricordi di una delle due ragazze correvano certamente a cavallo tra il 1979” e il 1980 quando appena ventenne, prendevo in prestito la vecchia “Fiat 500” di mia madre, dove certamente qualcosa, di cui lei non doveva assolutamente sapere, accadde. Talvolta ancora oggi mi soffermo a pensare come facevo ad aggrovigliarmi dentro quello striminzito abitacolo assieme ad una tipa poco più bassa di me, dato che già all’epoca ero alto più di un metro e ottanta. Ma dopo un’attenta ricostruzione temporale dei fatti, arrivai alla conclusione che una delle due ragazze ipotizzate come mia papale guida verso la timbratura da uomo maturo, non poteva essere, perche in realtà, quest’ultima non filava con me ma un mio amico.
Rimaneva così soltanto Alessandra, era così che si chiamava, un'attraente ragazza del Fleming rimorchiata una domenica pomeriggio in discoteca, credo al "Mais" un ritrovo  molto in voga in quel periodo, proprio ad un passo da Piazzale Flaminio. 
Una mora dalle gambe mozzafiato, con due occhi che ipnotizzavano. Ricordo era più grande di me di un paio d’anni, ma frequentava già ragazzi più maturi, del resto per una ragazza  di quell’età andare con persone più grandi era una cosa quasi normale, non fosse altro per l’indipendenza economica di cui poteva beneficiare un ragazzo che già lavorava, e magari già munito di una moto o di una macchina tutta sua. Quando la prima volta accettò di  darmi il suo numero di telefono per poi vederci, feci uno sforzo a credere stesse accadendo proprio a me. Ricordo che a noi studenti, non ci girava mai una lira in tasca, se non quelli della paghetta settimanale che ci davano i nostri genitori, ma necessari soltanto per pagare il biglietto in discoteca, comprarci le sigarette, e con la misera rimanenza che ci restava  nelle tasche, pagare il biglietto dell’autobus per ritornarcene a casa.
Non potrò mai dimenticare la prima volta che ci uscii, diedi il meglio di me stesso in tutti i sensi, mi ero messo in testa di fare del tutto per conquistarla, avrei fatto l’impossibile purché diventasse la mia ragazza. L’andai a prendere di domenica pomeriggio sotto casa di una sua amica, quindi per far colpo su di lei, decisi di portarla in cima al belvedere  dello zodiaco a prendere un gelato. Era incredibilmente bella, nessuno  le toglieva gli occhi di dosso, la guardavano tutti, uomini e donne, con una cascata di capelli nero corvino sciolti sulle spalle fino ai fianchi, non passava di certo  inosservata. Ma tutte le mie illusioni precipitarono rovinosamente, svanendo poi nel nulla più totale, quando una sabato sera, proprio davanti al bar Canova, la vidi uscire mano nella mano in compagnia di un uomo con la barba, per poi salire eccitata e zampettante su una fiammante Mercedes Pagoda scappottabile. Da quel pomeriggio, escluso qualche mio timido e fallimentare contatto telefonico, ne la risentii, tantomeno la rividi mai più.  
Chissà, forse il fatto di pensare ad Alessandra, come la donna con cui feci sesso per la prima volta, era un’illusione a cui volevo credere per forza, il mio narcisismo ne sarebbe rimasto compiaciuto. Ma con il tempo mi persuasi del contrario, sapevo bene non essere così. Erano troppe le cose che non mi tornavano. La seducente mora del Fleming, mi rimase impressa solo per la sua travolgente bellezza, ma non potevo certo assegnarle nessun primato. Dovevo ostinarmi a cercare altrove. Così con tanta buona pazienza, iniziai a fare appello alla mia memoria passando in rassegna tutte le ragazze con cui avevo avuto dei rapporti e non solo solo amicali, precedenti a quell’isolato e immemorabile ricordo.
Una sera, a cena a casa di mia madre, scovai riposta in una libreria di quella che un tempo fu la mia cameretta, stipata tra i vari libri di scuola, una vecchia rubrica risalente ai tempi delle scuole medie. Non appena la vidi, mi sembrò un miraggio, pensai subito potesse rifugiarsi proprio li il nome di colei con cui diventai grande, e che per assurdo ne avevo rimosso totalmente l’esistenza. Sulla prima di copertina, tra i geniali disegni di Jacovitti, era riportata la data cui faceva rifermento, “Anno scolastico “ 74/75” 
In realtà era un diario,  quindi la mia ricerca poteva rivelarsi ancora più utile, dato che nei diari non appuntavo soltanto i compiti assegnati, ma oltre alle note della professoressa, avevo l’abitudine di riportare tutto il resto che girava attorno alla mia vita di adolescente, note di diverso genere, inni della mia squadra del cuore, pastrocchi, commenti su varie cottarelle, infine, i numeri di telefono. Quindi di buon impegno mi accomodai ed iniziai a sfogliare quel remoto documento così carico di ricordi.
Nelle prime pagine c’erano spillate delle foto fatte con una vecchia Polaroid  nel corso di una gita fatta a Napoli, in visita sul Vesuvio. Non potei fare a meno di scoppiare a ridere quando vidi in che modo andavamo conciati in giro: pantaloni a vita bassa a zampa d’elefante, stivaletto con doppia riga verticale fin sulla punta squadrata, maglioncini a “V” attillati a righe orizzontali, da dove sporgevano dei colletti lunghissimi fino a metà petto, i capelli tassativamente stirati a caschetto. Sembravamo tutti personaggi della serie televisiva “Romanzo criminale” . Tuttavia da quelle istantanee non emerse nulla che potesse riportarmi a qualcosa di utile alle mie ricerche. Proseguendo poi lo spoglio, e superate le prime pagine piuttosto pulite e poco scarabocchiate, iniziarono i vari commenti riguardanti il sesso opposto, con specifico riferimento ad una ragazza di nome Franca, mia dirimpettaia di banco per tutti i tre anni delle medie, di cui me ne ero follemente infatuato, ma che per mia sfortuna, lei non mi vedeva neppure, essendo da sempre innamorata di un altro tizio, un certo Roberto, un ragazzo abbastanza più grande di me, che lavorava nel negozio del fratello, presso una macelleria di quartiere.
Infine, sfogliando la rubrica i numeri che erano appuntati in fondo al diario, a patto che fossero ancora abilitati, erano perlopiù quelli dei miei amici, purtroppo quelli delle ragazze ce ne erano ben pochi, si e no tre o quattro, per altro con la certezza che con nessuna di loro avevo mai scambiato nulla di più, se non di nascosto qualche compito in classe. Quella del diario si stava rivelando un buco nell’acqua, mi riportava ad un periodo troppo precoce per certe cose, ne dedussi che certamente a tredici anni ero ancora illibato.
Risalendo nei miei ricordi con l’età, mi venne in mente che avrei potuto  consumare il tutto, in una delle tristi passeggiate per puttane fatte in compagnia di alcuni amici già più svegli di me in certe faccende.  Ma subito dopo, mettendo bene a fuoco quegli eventi, neanche questa ipotesi rispondeva al mio quesito. Questi fuori programma erano chiaramente nella più totale segretezza generale, se per disgrazia mio padre avesse  anche solo sentito vociferare che  sperperavo i soldi della paghetta a puttane, mi avrebbe ucciso, oltre al concreto rischio di non rivederla più per chissà quante settimane. 
La meta erotica era Viale di Tor di Quinto, ci arrivavamo con la linea del 446.  Il tutto si svolgeva su  una lunga strada alberata a nord della città, dove sia di giorno come pure di notte, lungo i marciapiedi passeggiavano delle giovani donne intrattenendosi a quel triste mercimonio, ma era facile trovare anche qualche attempata signora sulla cinquantina inoltrata, speranzosa di sbarcare il lunario per pochi soldi, magari all’aperto, piegata in due dietro qualche platano del viale, cedendo alle voglie più sfrenate di ragazzi esuberanti e sempre in bolletta come noi. Ciò che ricordo di quelle poche volte in cui mi feci convincere ad accompagnarli, si risolse con un nulla di fatto, per meglio dire, la prima volta assistetti inerme senza fare nulla inventando un improbabile mal di pancia, mentre la volta successiva, dopo essermi appartato con la “signora” nota nell’ambiente come la “principessa” non riuscii in nessun modo e rendere funzionante la mia virilità, con conseguente beffa della matrona, che promise di non dire nulla ai miei amici, solo a patto che gli dessi altre cinquemila lire.
Lentamente con il passar del tempo iniziai a mollare la presa abbandonando quasi del tutto le ricerche. Mi ero dato per convinto che non sarei mai più riuscito a risalire a nulla. La cosa stava diventando una barzelletta. E la cosa la capii meglio quando poi una sera a cena con i soliti amici, complice anche qualche bicchiere di vino in più, uno di loro, rivolto al mio indirizzo, si alzò in piedi alzando in aria un bicchiere, e rifacendo il verso a Shakespeare disse.
“ Trombato o non trombato? Bionda o mora? Alta o bassa? Questo è il problema ….”
La cosa si concluse in un’unanime risata alla quale io per primo partecipai. 
Dovevo smetterla definitivamente, troppi anni mi dividevano dal ricordo di quell’intimità per sempre svanita nei meandri dalla mia memoria. Tornai a pensare ad Alessandra come mia prima musa, se non altro mi faceva semplicemente piacere pensarlo.
Dopo quasi un anno da quella recita Shakespeariana, una sera di inizio estate mi trovai a passeggiare per il centro in compagnia di Giulia, una’amica di vecchia data, che non rivedevo più da un secolo, e che avevo rincontrato nelle vesti di agente immobiliare durante una mia visita in un appartamento che volevo comprare. Giulia aveva vissuto per un breve periodo proprio nello stesso quartiere dov’ero nato, ricordo all’epoca del liceo, aveva la mania di organizzare di continuo feste in casa sua, dato che  i genitori molto spesso erano in viaggio per lavoro. Quando poi alla fine di quella visita decidemmo di rivederci magari per mangiare una cosa assieme in centro, ne fui molto contento. Una volta giunti in Piazza s. Maria in Trastevere gremita da turisti di ogni colore e razza, come spesso capita, si stavano esibendo vari artisti di strada. Ad un lato della Basilica sostava un vecchio mangiafuoco, un uomo dall’aspetto rude, a petto nudo, scalzo, mani e faccia nere dalle esalazioni dalle accese svampate. Teneva stretto in pugno un fiasco colmo di liquido infiammabile, che poi una volta riempitosi la bocca, sputava in rapida successione, lasciando una scia così alta di fuoco, capace di illuminare più di mezza piazza, e dove ad ogni esibizione, scrosciavano spontanei applausi da parte di tutta la multietnica platea.
Più in la, sull’altra sponda della piazza, un gruppo di acrobati formato da ragazzi e ragazze, abbigliati da larghi costumi in raso multicolori, del tutto simili a certi sbandieratori medioevali durante le feste di provincia, si esibivano destreggiandosi abilmente e in perfetto equilibrio su altissimi trampoli, volteggiando tra le mani un numero incredibile di birilli infuocati, passandoseli in aria l’un l’alto a ritmo di musica. Non appena Giulia vide quello spettacolo dal sapore circense, le si illuminarono gli occhi lasciandola a bocca aperta, sembrava non avesse mai assistito a nulla di simile, mentre la osservavo, i miei pensieri caddero a quelle feste che oramai mi sembravano lontane un secolo. Giulia era rimasta la stessa di allora, obbiettivamente una gran bella donna, sempre molto elegante, come del resto lo era anche da ragazza. Mi era anche capitato di baciarla una volta in occasione di uno dei tanti giochi casalinghi tipici degli anni settanta quando si facevano ancora le feste in casa. La cosa più o meno funzionava così.
Veniva fatta una conta tra tutti i ragazzi, quindi a secondo di dove cadeva la sorte, gli veniva fatta la famosa frase “dire, fare, baciare, lettera o testamento? “ una volta stabilito cosa scegliesse tra le cinque opzioni, doveva far ruotare una bottiglia al centro di un gruppo di ragazzi e ragazze disposti in cerchio, in ultimo, li dove il becco della bottiglia si fosse fermato  all’indirizzo di chiunque, sia un ragazzo come pure una ragazza, doveva onorare la cosa che aveva scelto in precedenza. Ricordo bene che una volta toccò proprio a me far girare quella bottiglia dopo aver scelto l’opzione “baciare” con il  timore e l’imbarazzo che la sorte non cadesse proprio su di un ragazzo, ma non fu così, bensì puntò dritta proprio su Giulia. Quindi pagai pegno ben volentieri con la padrona di casa baciandola in modo tutt’altro che cinematografico. Forse anche a causa del Martini, che nelle sue feste scorreva a fiumi.   
Assiepati tra la folla, che si faceva man mano sempre più numerosa, per andarcene dovetti trascinarla via quasi a forza.
Decidemmo per un giapponese, anche perche Giulia,  pur avendone sempre avuto voglia,  non le era mai capitato di andarci. Una volta raggiunto il ristorante nipponico, alla porta un’esile ragazza dagli occhi a mandorla e dall’acconciatura tipica da geisha ci ricevette usando la caratteristica leziosità che soltanto loro sanno manifestare così bene, quindi ci condusse dove avremmo poi cenato, ossia su degli ampi e comodi cuscini rossi, ricchi di pon pon dorati, di fronte ad un tavolinetto in ebano piuttosto basso.
Di conseguenza, una volta spaparanzati, l’asiatica ragazzina ci disse con squisita gentilezza, che se volevamo potevamo toglierci le scarpe, suggerendoci inoltre che secondo la loro tradizione, scalzi il cibo si assaporava meglio e con più gusto. E così facemmo, anzi, dovetti notare che Giulia non se lo fece ripeter due volte, confidandomi poi che aveva i piedi gonfi per il tanto camminare.
Ovviamente pensai io alle ordinazioni del cibo per tutti e due. Ma mentre sfogliavo attento la carta del menù ricca delle più svariate  pietanze , d’un tratto sentii  afferrarmi una mano e dire.

<< Andrea, sto trascorrendo una bellissima serata, e anche se è passato un sacco di tempo, sei rimasto quella bella persona che conoscevo un tempo, grazie.  >>
Quindi aggiunse.
<< Devo confessarti una cosa che non ti ho mai detto prima, ma ora siamo abbastanza grandi per non tenere più nascosti certi segreti, lo sapevi che tu sei stato il mio ragazzo? Intendo dire proprio in quel senso, anche se ho i miei dubbi che tu te ne possa ricordare, visto lo stato in cui eri ridotto quella sera dopo la sbronza che prendesti con i tuoi amici, fu proprio di domenica, lo ricordo bene, fu il giorno prima che io poi partii con i miei per Pisa. >>
La carta del menù mi cadde praticamente dalle mani, la guardai allibito, non sapevo cosa dire, se non una banalità del tipo.
<< Certo che si, seppure in modo molto vago, ricordo solo che quella domenica avevamo tutti  bevuto moltissimo.>>
<< Hai ragione, ricordo che eri così sbronzo, che in un momento di lucidità mi chiedesti se io l’avessi mai fatto prima, chissà, forse ti venne lo scrupolo di coscienza sulla mia verginità, poi quando mi rivelasti che anche per te era la prima volta, mi facesti una tenerezza infinita, e fu proprio allora, attraverso quella tua dolcissima ammissione, che decisi di lasciarmi andare..>>
Poi presa da un attimo di commozione, mi guardò fisso negli occhi e disse.
<< Ci tenevo sapessi che essere diventata donna insieme a te, è una delle poche cose di cui ancora oggi, non mi sono mai pentita di aver fatto. Grazie Andrea … >>

  




Nessun commento:

Posta un commento